Il semaforo dell’arredo non ha ancora la luce verde
Per il 66% dei consumatori, l’efficienza energetica è il principale parametro nelle scelte d’acquisto, mentre per il 62% i brand devono adottare un approccio responsabile nei confronti dell’ambiente.
A rilevarlo è una recente indagine di LG commissionata a Gfk, sul mercato italiano, dalla quale emerge un dato ancora più importante:
Il 40% (il 5% in più rispetto al 2017) è disposto ad acquistare prodotti con minore impatto sull’ambiente, anche a fronte di un costo maggiore.
Insomma, i nostri clienti vogliono che ci prendiamo cura dell’ambiente, e ce lo stanno dicendo forte e chiaro!
Non solo: l’attenzione alla responsabilità sociale e ambientale delle piccole e grandi imprese influenza ormai anche la loro attrattività agli occhi dei potenziali collaboratori:
Una recente indagine IBM ha rilevato che il 48% dei lavoratori sarebbe disposto ad accettare un impiego che offra un salario più basso, per lavorare all’interno di un’azienda responsabile.
Per quanto tempo ancora possiamo pensare che noi professionisti dell’arredo non dovremo fare i conti con queste tendenze?
Per coloro che hanno saputo intercettare già tempo fa la necessità di cambiare rotta, la maggiore attenzione alla sostenibilità è diventata un punto di forza.
Purtroppo, il comparto dell’arredamento non è tra questi.
Eppure, avremmo dovuto essere tra i primi: quale settore, se non quello dell’arredo, si sarebbe dovuto lasciar guidare dall’onda “green”?
Dopotutto, il legno è da sempre emblema dell’economia circolare: ogni anno il materiale per costruire mobili si rinnova.
La certificazione FSC è un passo microscopico verso il percorso che il comparto dovrebbe intraprendere:
l’attenzione dovrebbe riguardare non soltanto il legno, ma anche colle, laminati, listini cartacei, tessuti, elettrodomestici, vernici.
Non basta riforestare, o mettere i pannelli solari sui tetti delle aziende.
Servono un approccio globale e una certificazione di sostenibilità seria per tutta la filiera, al pari della ISO 2001. Ciò di cui si sta parlando, infatti, non è soltanto una riduzione delle emissioni inquinanti o un maggiore efficientamento energetico.
Limitando la visione a quest’ultima accezione, il Superbonus e le varie agevolazioni fiscali per la casa hanno in un certo senso perso la battaglia per la quale sono nati.
La sfida in corso è su un terreno di gioco più ampio:
una presa di responsabilità nei confronti delle persone e della loro prima casa, ovvero il pianeta sul quale viviamo.
Se in passato generiche autodichiarazioni di essere “green”, vaghe certificazioni e sporadiche azioni virtuose erano sufficienti per apparire positivamente agli occhi delle persone, oggi tutto questo non basta più.
E, in futuro, basterà sempre meno per riuscire a stare in un mercato che pretenderà una precisa e puntuale rendicontazione dell’impatto di ogni azienda, sia sul benessere del pianeta sia su quello delle persone.
Non ci stiamo accorgendo che sono proprio le persone a pretendere dalle imprese un cambiamento, un approccio differente.
I consumatori esigono oggi che ogni azienda, dalla più piccola alla più strutturata multinazionale, renda conto del proprio impegno nel miglioramento del pianeta e della qualità di vita globale.
I lockdown hanno contribuito a rifocalizzare l’attenzione delle persone sulla casa, non solo come ambiente esteticamente appagante, ma come luogo nel quale essere se stessi, coltivare momenti di qualità e costruire ricordi insieme alle persone che più si amano.
Mai come in questo periodo storico la casa deve essere il luogo che si prende cura delle persone, un nido che aiuta a vivere meglio.
Oggi forse possiamo ancora permetterci di scegliere se essere tra le aziende considerate virtuose e se impegnarci per migliorare il nostro impatto.
Domani, però, dovremo sperare di non essere rimasti così indietro da non poter più recuperare terreno.